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Ricordo vagamente le strane cose che mi
accaddero quella volta nello spazio.

Ignoro
come, ma mi ritrovai, sotto una cappa di stelle splendenti, di fronte ad un
singolare mezzo di trasporto. Era una sorta di pesce meccanico, alto il doppio
di me e altrettanto largo. La testa semisferica costituiva la cabina di
comando, il cui interno era visibile da fuori attraverso i due oblò circolari,
posti in corrispondenza degli occhi della creatura marina. Al posto delle pinne
laterali c’erano due alettoni, come quelli di un aereo, ma molto più piccoli.
La parte inferiore del corpo metallico terminava in sei cavità rotonde. Chissà
a cosa servivano …

Nel
complesso, il bizzarro mezzo sembrava fatto per volare nello spazio. Mi
avvicinai per esaminarlo meglio. Notai una strettissima fessura che delimitava
l’apertura del portellone che immetteva nella cabina di comando. Il pesce
volante sembrava fatto per contenere soltanto una persona alla volta. Guardando
meglio, vidi che sotto l’oblò che mi stava più vicino era incisa una scritta.
Incuriosita, lessi i caratteri lucenti. La scritta era un avvertimento: “Non
premere il pulsante bianco se sei una persona indecisa”.

Pulsante
bianco?

Vagai
con lo sguardo in cerca di quel pulsante. Alzando il capo per controllare sul
tetto del veicolo, mi accorsi che una protuberanza rotonda troneggiava al
centro dell’oblò, proprio sotto il mio naso. Come avevo potuto non vederlo? Era
proprio un pulsante bianco. Era grande quanto una mano aperta e al centro
riportava una scritta in rilievo che invitava a premerlo.

Pensai
all’avvertimento. “Io sono proprio l’ultima persona che dovrebbe pigiarlo”, mi
dissi. Ma avevo già deciso che l’avrei premuto. Cosa sarebbe accaduto?

Assecondai
la mia curiosità e lo premetti.

In
trenta secondi, la navicella spaziale s’illuminò tutta. Fluttuò da terra
emettendo degli sbuffi di fumo candido dalle sei cavità inferiori. Ecco a che
cosa servivano: erano le estremità dei condotti di scarico dei gas di
propulsione!

Il
pesce metallico si sollevò di un decimetro, mentre il portellone si apriva a
pressione verso l’alto, facendo un rumore molto simile a quello che fanno le
porte degli autobus quando si aprono. Mi accingevo ad osservare la miriade di
luci colorate sullo schermo del computer di bordo, quando una voce artificiale,
atona, dichiarò: «Hai sessanta secondi per pensare intensamente al luogo che
desideri raggiungere».

Trasalii.
La navicella mi aveva rivolto la parola.

Sul
grande schermo piatto comparvero le cifre di un conto alla rovescia: 50, 49,
48, …

Dovevo
sbrigarmi! Dovevo pensare alla svelta. Dove, dove andare?

Intanto
mancavano trenta secondi …

E
poi, se non avessi scelto, che cosa sarebbe successo? Notai una dicitura nella
parte superiore dello schermo: “Nota bene: se non ti decidi a scegliere un
posto entro il tempo concesso, perderai la tua unica occasione e partirò senza
di te. Rimarrai a terra, con tutte le tue angosce e le tue paure”.

Tredici,
dodici, undici, …

“Svelta,
svelta, svelta!”. Mi affrettai a sedermi sul sedile di guida – un puff cubico, soffice
e colorato – e strizzai gli occhi per concentrarmi.

Il
pericolo di venire abbandonata nella solitudine, costretta a convivere con il
dolore e le inquietudini, senza sapere come fare per uscire da quello spazio
deserto e oscuro, mi spinse a cercare dentro me un posto segreto, lontano da
ogni essere umano, isolato, ma, nello stesso tempo, famigliare e confortante.
Volevo andare via, via da tutto e da tutti, dimenticare me stessa, attingere ad
un equilibrio mai raggiunto. Desideravo la calma, perché il mio animo era fin
troppo agitato. E desideravo la consapevolezza di tutti i miei limiti.


Partenza.

Non
ricordo come si svolse il viaggio. Forse mi addormentai all’istante.

Ricordo
soltanto una brezza leggera, estiva. Ricordo che l’aria salmastra invase i miei
polmoni, aria che fin dalla prima boccata mi fece sentire a casa. E ricordo
l’inconfondibile sensazione della consistenza della sabbia fresca e fine tra i
miei pugni.

Quando
riaprii gli occhi, cauta, un orizzonte sconfinato riempì la mia vista: una linea
evanescente, l’incontro tra cielo e mare.

Mi
resi conto che la luna stava tramontando. La volta stellata era velata da
qualche nuvola scura. Il tenue chiarore della notte si rifletteva sulla cresta
delle onde lunghe, che increspavano le acque nere creando giochi di luce e suonando
quella piacevole melodia che solo lo sciabordare dei flutti sulla battigia è in
grado di produrre.

Il
mare.

Rimasi
lì, immobile. Seduta sul frangiflutti, dove la schiuma candida delle onde non
raggiungeva ancora la punta dei piedi nudi. Rimasi lì, con le gambe raccolte
tra le braccia, le ginocchia al petto. Fissavo il nero liquido.

Il
mare ha il potere di incantarmi. E così m’incantai quella volta.

Ogni
flutto si faceva più lungo, e si spargeva piatto sconfinando sulla superficie
infinita dell’oceano. Mi accorgevo appena che a est un timido crepuscolo si
affacciava con estrema lentezza, scoprendo man mano i colori ombrosi del
paesaggio. Lì sotto, dove il sole fondeva eccezionalmente le acque e
l’atmosfera, chissà, forse era lì la chiave che cercavo, la chiave della
serenità. Forse la soluzione era unire tutto e mettere ogni cosa nel posto in
cui doveva stare, così come le nuvole stanno in cielo e il mare sta in terra.
Dunque, occorreva prima trovare i pezzi mancanti; poi riconoscerli e sistemarli
al posto giusto; infine, avrei dovuto ricollegare tutti i pezzi.

Era
questa la consapevolezza che cercavo. Una visione d’insieme della mia vita, un
quadro completo e armonioso che raffigurasse ciò che ero diventata. Dovevo
capire chi ero o chi stavo diventando, avevo un gran bisogno di vedere chiaro,
di risalire all’indietro per indagare le profonde ragioni che mi avevano
indotta a perdere tanti affetti, o a non crearne affatto.

Chiusi
gli occhi per tuffarmi nel passato, nell’infanzia. Cercai e cercai. Trovai cose
che credevo perdute, ne scoprii altre che credevo mai avute, ne compresi molte
che credevo complicate. Cercai a lungo.

Ma
non trovai il coraggio. Non lo trovai il coraggio di guardare in fondo alla
voragine. Non ebbi l’ardimento di osare un tuffo così profondo e rifuggii in
superficie, spaventata dalla profondità di quella ferita. Spalancai gli occhi,
sconcertata. La musica monotona delle onde mi riportò sulla spiaggia, dove
sedevo ancora abbracciando forte le ginocchia, premendo il viso su di esse per
paura di ritrovarmi di fronte a quel baratro terrificante. Del tutto diversa fu
l’immagine che rapì i miei occhi semichiusi: non un nero precipizio, ma la
tavola argentea, maledettamente piatta, del mare.

Come
diavolo potevo trovarmi in un ambiente talmente calmo, mentre dentro di me
imperversava una furiosa tempesta?

In
un secondo desiderai che i raggi insonnoliti di quel sole d’estate venissero
schermati da una coltre densa di nubi nere di pioggia. Desiderai che la
tempesta che scuoteva la mia anima uscisse fuori e scatenasse i suoi disordini
all’esterno, e che invece quella pacata alba di Giugno entrasse in me, dando un
senso a quel puzzle incompleto che era la mia esistenza, riempiendo con la
sabbia fresca e liscia di quella spiaggia solitaria il grande abisso tra ciò che non sono e ciò che voglio essere, sperando che quel sole nascesse in me e
legasse una volta per tutte il cielo e il mare della mia vita.

Desiderai
andar via da quella spiaggia, perché non c’era soluzione possibile. Non al
momento almeno. Mi ero resa conto di non essere pronta a guardare il fondo del
mio cuore. Desideravo tornare a casa, nella città in cui avevo vissuto per
undici anni, dove sapevo di poter trovare il mio angolino di pace momentanea.
Non ero pronta a capire.

No,
sto mentendo. Ho già capito da tempo com’è fatto il fondo di quel baratro. L’ho
anche toccato un paio di volte. Ma l’ho raggiunto sempre ad occhi chiusi,
codarda. Il coraggio che mi manca è il
coraggio di accettarlo
. Non ho il coraggio di accettare tutto.

 

______________________________________________

 

Ricordo
vagamente le strane cose che mi accaddero quella volta nello spazio. Mi è
rimasto soltanto questo racconto frammentario e sfocato.

Ma
adesso so. E quando troverò la chiave, finalmente la mia tempesta si placherà.

Ti
aspetto, mia
alba di Giugno

[…].
Alessa si arrestò, confusa.
Una miriade di colori e di immagini sovrapposte danzava davanti a lei ed intorno a lei.
Pensò di stare per svenire; quel turbine indistinto di linee e forme le fece perdere la sensazione dell’equilibrio. Eppure era in piedi, immobile. Tutto il mondo, al contrario, le danzava intorno incomprensibilmente.
Forse era un’illusione. Un sogno strano. Tuttavia, Alessa aveva piena coscienza di sè. Gli altri quattro sensi sembravano funzionare, visto che percepiva ogni singolo movimento del suo corpo.
Aveva i piedi ben piantati a terra, ne era certa.
Si toccò il viso con le mani: constatò che esisteva ancora, che aveva la sua solita consistenza.
Si guardò la mano.
Per un istante le parve di distinguerne i contorni – o se l’era immaginato? -, ma poi le linee, incerte, si confusero con il resto, danzando come tutto ciò che era al di fuori di lei.
Nessun rumore. Era diventata sorda?
Un pacato silenzio l’avvolgeva.

No, veramente percepiva dei suoni ovattati …

Fruscii.
Era il frusciare dei suoi vestiti mentre la ragazza si guardava attorno sconcertata.
E il suo respiro. Era così scontato, il suono del suo respiro, che inizialmente l’aveva isolato da tutto.
Respirava irregolarmente.
Il suo cuore batteva. Forte.
Quanti suoni in quel silenzio!

<< Ehi … >>, mormorò incerta.
Si sentì ridicola nel farlo, ma aveva bisogno di capire se era ancora in grado di emettere suoni.
Sussurrò una serie di parole, sempre più forte, per testare le sue corde vocali. Funzionavano.
Alessa fece un respiro profondo.
Prese una bella boccata d’aria fresca. La trattenne e poi la lasciò scorrere, lentamente, fuori dalle narici.
Respirò con calma quell’aria così pulita, così viva. Assaporò con rinnovata curiosità ogni fragranza, ogni differenza di temperatura, l’odore della terra secca, il profumo dell’erba giovane, l’essenza legnosa delle piante, la consistenza granulosa del cemento sbriciolato ai suoi piedi – le parve di vederlo -, l’altezza dei palazzi e la profondità dell’abisso a pochi passi da lei. Il tenue azzurro macchiato a tratti da sbuffi bianchi e soffici. Il calore della luce, il fresco scorrere di acque sotterranee, lontane chissà quanto dai piedi della ragazza, che stava in piedi, stupefatta da tutte quelle sensazioni.
Si era talmente persa nell’ascolto di ciò che la circondava che non si era resa conto di aver abbassato le palpebre.
Non appena se ne accorse, il nero cominciò a dissolversi, lasciando il posto all’ambiente in cui si trovava.
Sollevò le palpebre, ma la vista non mutò.

Alessa scosse la testa, come per scrollare via la sensazione di vederci doppio.
Adesso le sembrava che i contorni delle cose ondeggiassero lievemente, come se visti attraverso una parete d’acqua.
Cosa le stava succedendo?

Si concentrò sulle scarpe. Le sue All Stars preferite, quelle grigie con i lacci decorati da una fila di stelline bianche.
Cominciò a contarle.
Ci vedeva male? Le stelle ondeggiavano! Non riusciva a metterle a fuoco, le sfuggivano.
Le bruciarono gli occhi nello sforzo di fissarle. E si ritrovò a fissare … i suoi piedi nudi!?
Alessa trasalì.
Senza accorgersene, si era piegata su se stessa per osservarsi le scarpe e l’improvviso cambiamento d’immagine l’aveva spaventata.
Si strofinò gli occhi.
"Qualcuno si sta prendendo gioco di me. Oppure è tutto un sogno strano. E anche lungo, per i miei gusti!".
Osò riprovare.
Indossava le sue Converse, come poco prima.
"Bene".
Si concentrò su una sola stellina, la stessa di prima. Stavolta, però, non tremolava.
Si avvicinò con il busto alle cosce. Fissò ancora la stella.
Distinse ogni più piccolo filamento che costituiva la fibra del laccio, i singoli pigmenti.
Al di sotto, altre fibre, più spesse e intrecciate, ruvide. Le parve di poterle toccare. Poi, uno dopo l’altro, tutti gli strati dell’epidermide. Cellule su cellule, componenti di tessuti differenti. Milioni di colori. Rosso. Sangue, muscoli, cartilagine.
"Sangue!?".
Stava guardando attraverso il suo piede!
Alessa strillò e trasalì per la seconda volta, portandosi una mano alla bocca. Aveva visto quello che credeva? Sul serio? Poteva guardare attarverso gli oggetti?

Aprì bene gli occhi.
Si sentì male: tutto ricominciò a danzarle intorno vorticosamente, come prima e più di prima.
Non riusciva a concentrarsi sui singoli oggetti: trafiggeva le superfici con la sua vista anormale, metteva a fuoco e sfocava, fissava e roteava. Una confusione insostenibile.
Strizzò forte gli occhi, gemendo, pregando di svegliarsi da quel sogno, e nello stesso tempo, desiderando di rimanere così, al buio, dove tutto era immobile, dove tutto era fermo, certo.
Sentì le ginocchia cederle.

Rimase seduta per terra, la testa fra le mani, gli occhi chiusi, il respiro affannato.
Perchè non si svegliava?
Gli occhi le davano fastidio. Aveva bisogno di tenerli aperti, lo sentiva. Ma non voleva.
Ancora una volta, il nero si dissolse. Alessa si ritrovò a fissare il terreno. Ad occhi chiusi. Attraverso le sue stesse palpebre.

Gli occhi bruciavano.
Il suono del suo respiro affrettato si amplificò in modo innaturale, portando con sè l’odore penetrante del terriccio arido e un forte calore all’altezza delle spalle, raccolto intorno a due punti simmetrici e distinti, a destra e a sinistra della colonna vertebrale.
Tutto bruciava.
Avrebbe pianto di dolore, se solo avesse avuto lacrime. Ma non ne aveva: non c’era acqua nel suo corpo.
Alessa cominciò a singhiozzare, stringendo convulsamente ciocche ardenti di capelli.
Perse la forza di pensare.
Ascoltava contemporaneamente tutti gli impulsi del corpo e della mente. Qualcuno o qualcosa strillava. Era lei a gridare?
Sentì i due punti incandescenti sulla schiena ardere pericolosamente.
Alessa urlò e capì che il suo corpo si stava disfacendo. Si consumava in un incendio di colori e di linee turbinanti, senza suoni, e senza un inizio o una fine. Alessa si contorceva, nel vano tentativo di spegnere quelle fiamme che la divoravano dall’interno.
Il fuoco la colpiva con violente stangate sulla schiena, lacerava le sue carni senza pietà. Il fuoco stava cercando un varco per uscire dal suo corpo, che si dimenava come se fosse indiavolato.
La ragazza si dibatteva, boccheggiando, sul terreno rovente come sabbia del deserto, senza emettere voce, gridando con la mente, intrappolata nella sua agonia in quella confusione d’immagini.

I colpi si fecero più pesanti, il dolore sempre più acuto. Il dolore scorreva come un lento fiume di lava lungo la schiena ricurva, e poi si trasformava in acqua fresca di sorgente, piacevolmente liquida.

Un gelo pungente, inesorabilmente lento, avvolse le membra di quel corpo sofferente, levigandolo, dandogli sollievo, poco a poco.
Alessa si smarrì in quel limbo trasparente, senza colori e senza consistenza.
Prima di scivolare nella totale incoscienza, sentì vagamente la pelle delle spalle spaccarsi e poi formicolare in modo innaturale, mentre un liquido – caldo e denso – zampillava vivace dalle ferite indolori.
[…].



[…].
<< Aiutatemi! Aiutatemi a prenderla …! >>.
Un umore malsano – sangue misto a metallo – punse le narici di Alessa, scivolando fino alla punta della sua lingua, sgorgando in rivoli sottili dagli angoli della bocca semiaperta.

Bozza n° 2 – Fuga

[…].
"Mi avranno sentita!?".
Il cuore le scoppiava in petto. Tenne la mano sulla bocca per non farsi scappare un urlo e trattenne il respiro.
C’era silenzio ora. Troppo silenzio …
"Merda!".
S’impose di non cadere nel panico. Tolse la mano dalla bocca e la lasciò cadere lungo il fianco, facendo il meno rumore possibile. Le sembrò che il fruscio della stoffa della manica fosse udibile a grande distanza. Ebbe paura che si potesse sentire il forte martellare del suo petto.
Espirò. Inspirò. Era scossa da un lieve tremore: quella era una reazione che non riusciva ancora a controllare.
Le girava la testa. Doveva nascondersi, si erano accorti di lei. Se l’avessero presa, sarebbe stata la fine sua e di tutta la sua banda.
Non poteva permetterlo. Alessa era consapevole che se si fosse lasciata catturare, avrebbe dovuto proteggere le informazioni della sua mente. Sapeva che si sarebbe dovuta uccidere.
Il pensiero le diede un po’ di forza.
Non poteva morire. Non poteva scomparire. Tutti si sarebbero dimenticati di lei nella Realtà, tutto quello che aveva compiuto in vita sarebbe stato cancellato dal mondo …
Alessa avvertì uno spostamento d’aria.
Si girò lentamente verso la sorgente del movimento e cominciò ad indietreggiare lungo il muro, allontanandosi dal nemico.
Dovevano essere in due. O almeno così pensava, dato che aveva potuto distinguere due diversi timbri di voce nella conversazione. Erano due uomini. Giovani. La loro età doveva oscillare dai sedici a trent’anni massimo.
L’avevano sentita.
Alessa era allo scuro delle capacità dei due nemici e non osò attivare il potere. Prima doveva cercare una via di fuga.
Uno scalpiccio leggero proveniente dalla stessa direzione la mise in allarme. La ragazza non riuscì a frenare l’istinto di indietreggiare e lo fece troppo rumorosamente.
Si era palesata la sua posizione: lo scontro era inevitabile.
Alessa si aspettava di sentire una voce. Invece arrivò un colpo invisibile.
Sorpresa, la ragazza perse subito l’equilibrio e fu scaraventata all’indietro da una forza invisibile come l’aria, talmente violenta da sollevarla da terra e sbatterla contro l’asfalto ruvido. La forza magica continuò a trascinarla all’indietro facendole sfregare la schiena sulla strada, schiacciandola all’altezza dell’addome. Il colpo fu arrestato dalla resistenza di una parete solida. Fortunatamente, Alessa aveva protetto il capo con le braccia, serrandole forte attorno ai capelli.
Così non aveva battuto la testa.
Per due secondi rimase immobile, valutando i danni.
Le spalle le bruciavano come se andassero a fuoco e la testa le girava a mille. Pregò il suo cuore perchè smettesse di battere a quella velocità. Le sembrava che quelle pulsazioni percorressero tutto il suo corpo e per un attimo si chiese se non stesse per saltare in aria. Poi si rese conto che tremava. Soltanto tremava. Era spaventata da morire, l’avevano colta impreparata.
Si costrinse a mettersi in piedi, nonostante il tremore alle gambe.
I due nemici avevano già svoltato l’angolo ed ora erano fermi sul tratto iniziale del lungo vicolo stretto.
Due ragazzi, sulla ventina a giudicare dall’aspetto fisico. Chi dei due era stato ad attaccarla? Che razza di magia era?
Alessa invocò il potere e ne usò una minima parte per rimettersi in forze. Per reggersi in piedi, almeno.
La luce argentea la circondò e brillò fulgida sulle spalle insanguinate della ragazza. Quando il bagliore cessò, la pelle era rigenerata. Due splendide ali d’angelo erano spiegate in tutta la loro bellezza, costrette nello spazio angusto della piccola via.
I nemici, che in un primo momento erano sorpresi dalla luce, si mossero. Avanzarono celermente verso Alessa.
I due sembravano coetanei. Il ragazzo che stava in testa si mise in posizione di attacco e gridando caricò il braccio per sferrare un pugno.
"Che fa …!?". Era troppo lontano per poterla raggiungere.
Alessa saltò in anticipo e con un solo colpo d’ali si portò molto in alto, sopra i muri del vicolo, in tempo per vedere dall’alto l’onda d’urto scatenata dal pugno del ragazzo percuotere lo spazio nel raggio di cinque metri.
L’aria spostata investì con grande intensità i muri in mattone che delimitavano la via, fino a scontrarsi con la massicia parete in fondo alla strada: la solida superficie contro cui prima la ragazza era stata sbattuta, si crepò pericolosamente, provocando una pioggia di schegge e scariche elettriche e una nuvola di polvere e cemento.
Alessa, in volo, ricominciò a tremare.
Planò in circolo mantenendo la posizione, senza smettere di fissare gli occhi di quel ragazzo, scuri come il cuore della terra, accesi come tizzoni nella penombra. Erano occhi impazienti, pieni di ira.
La ragazza si accorse appena che l’altro ragazzo stava correndo via dal vicolo.
Stava cercando un mezzo per raggiungerla. I nemici l’avrebbero inseguita pure in volo?
L’inquietudine s’impadronì del suo animo.
Perse di vista il nemico che era corso via.
Agitata, Alessa si volse verso il vicolo. Il ragazzo che l’aveva colpita era scomparso.
Era spacciata.
[…].



—- Non leggere, non si capisce niente. —-
Non devi leggere:
— devi solo guardare. —
Guarda con attenzione:
tutto è come appare. —



.+*°*+O+*°*+S+*°*+S+*°*+E+*°*+R+*°*+V+*°*+::((O))::  .+*°*+A+*°*+.+*°*+B+*°*+E+*°*+N+*°*+E+*°*+.



[Trovare la causa.
Scavare nelle origini.
Quando è iniziato tutto?]

I need some certainty.
Give me some ……… .
…. with .e .
Don’t ever let m. al.ne.
Stay …. me .or ev.r.
. …. .

No, non lo sai.
..n ho bis.g.o .. ai… .
.. .

Ye.h,
I n..d some h… .
B.t I don’t w.nna ask anybody some ..lp.

Non è vero.
Non siamo pazzi, siamo uomini.

. am ma. .

Forse.

It weren’t a question:
that’s so.

Mi piace.

Why?

Non lo so.

You are m.d.

Me l. d.con. .u..i.
T.tt..

R.ally?
Th.y’.. rig.t.

L..o n.n s..no ni..te.

Never mind.

M.glio so.. .
.o.. . S.l. .
In fondo siamo t.tt. s.li.

We all are al.ne in the end.
We all are mad.

Siamo umani.


S e a r c i n g  . . .

 … 5
evol_livE <— tneliS  < – – –  Tutto è come appare.E poi.Scompare.

Come stai?

VVR
I colori sono in ordine. 22*.*81
E allora se vuoi capire [leggili in ordine.]

4
0ç_ç2

I am mad.

3

Hai trovato
la tua certainty
— .on ho b.sogno di aiu.o. — Sì invece.
?

2

Maybe.

,uoy deen syawla I
>> [Fastly]please, don’t ever let .e al.ne.

Stay …. me .or ev.r.

1
syawlA remember endlessly gazing in nocturnal prime


WtHAT’S GOING TO HAPPEN NmOrWe?
I VVR.


 ■ 

Siamo spiacenti:WARNING

nowhere to be found .

[WARNING]
___HIGH TOXICITY___

going haywire: 20 % . . .
Stay here, w.th m. .
Endlessly.

Bozza n°1 – Ritratto di Alessa

<< Guardala, è disposta per la battaglia.
Non si trasforma quasi mai. Rimane sempre così. Chissà se quando dorme torna al suo stato originale …>>, disse l’uomo distrattamente, come parlando tra sè. Poi rivolse un’occhiata intensa al ragazzo che gli sedeva di fianco.
Angelo, che aveva osservato da lontano l’amica a lungo, distolse lo sguardo.
<< Sempre ombrosa, sempre malinconica. E’ stata sempre così, fin da piccoli. Sempre così chiusa >>. Tornò a guardarla.
<< Spesso mi chiedo cosa le passi per la testa. Con me non parla molto; ma, d’altronde, non parla molto neanche con gli altri. Tu sei l’unico che riesca ad intrattenere con lei una vera conversazione >>.
<< Con me parla perchè ci conosciamo da una vita >>, ribattè Angelo. << Con me parla perchè si fida, perchè sono l’unica persona qui che fa parte del suo mondo e della sua epoca >>.
<< Anche io vengo dalla vostra epoca >>, replicò il Professore. << Comunque sia, l’importante è che abbia almeno te al suo fianco. Non è facile per nessuno affrontare tutto questo da solo >>.
L’uomo sospirò e si concedò con un gesto della mano e una smorfia.
Non appena Angelo sentì i passi del professore allontanarsi, stiracchiò i muscoli delle braccia e delle spalle, indolenziti. Da quanto tempo stava là seduto a fissare la schiena di Alessa? Si sentiva le gambe addormentate.
La ragazza era immobile.
Seduta sull’estremità della roccia, alcuni metri più in basso dello spiazzo dal quale Angelo ora si sporgeva, fissava un punto indefinito sull’orizzonte.
Di tanto in tanto, cambiava la posizione delle gambe. Prima a penzoloni sul vuoto, poi incrociate. Poi si era rannicchiata e aveva portato le ginocchia al petto, con la schiena ben dritta. Infine si era curvata in avanti, appoggiando il mento.
Guardava avanti.
Il tramonto contaminava l’azzurro di un timido rosa a ponente. Non si vedeva una nuvola e il clima era piacevolmente fresco.
Ma Angelo sapeva che Alessa, la sua migliore amica dall’infanzia, non badava a quello che accadeva intorno a lei. Almeno così credeva. Negli ultimi tempi percepiva un distacco più marcato del solito tra di loro e questo non gli piaceva. Era l’unico che potesse starle vicino, che potesse aiutarla se solo lei glie lo avrebbe chiesto.

Ma Alessa preferiva la solitudine. Preferiva starsene per i fatti suoi, a rimuginare sul passato, a riflettere sui suoi errori, a cercare le possibili via d’uscita da quell’incubo.

Era fatta così.
Inoltre, si attribuiva tutta la colpa per la scomparsa di Valeria. Non si dava pace, tormentava il suo fisico con quell’assurda e testarda convinzione che rimanendo trasformata più a lungo sarebbe riuscita a controllare meglio le forze interiori, per non perdere la concentrazione al prossimo scontro, per rendere più resistenti le ali. Alessa si era convinta che fosse stata tutta colpa della debolezza delle ali d’angelo se aveva perso quota tanto velocemente. Tutta colpa dei sensi mediocremente allenati se non aveva sentito arrivare il colpo …
Tutta colpa della sua scarsa resistenza al dolore fisico se era svenuta ancor prima di toccare terra.
E poi avevano preso Valeria, l’avevano presa e l’avevano portata via. L’avevano presa, mentre lei era svenuta e non poteva difenderla e Valeria non poteva difendersi, perchè era debole.
Avevano preso la sua migliore amica e lei era priva di sensi, fortunatamente atterrata in mezzo ad una fitta selva. Nessuno l’aveva notata.

Angelo tornò a sedersi, senza smettere di guardare la ragazza dall’alto.
Sapeva che Alessa non stava ammirando la bellezza di quel tramonto. Sapeva che stava pensando a Valeria.
Erano passate due settimane dallo scontro in cui Alessa era stata sconfitta da una banda. Angelo e il Professore cercavano le due ragazze già da due giorni e quando il ragazzo aveva percepito l’Essenza dell’amica, l’avevano trovata in mezzo ai rovi in una selva a sud, svenuta, l’odore di sangue nell’aria. Sangue ovunque.

Il sangue della sua migliore amica.
La vista di quello scempio l’aveva scosso parecchio. Era abituato a vedere certe cose, ma non era pronto a vedere una persona a lui così cara ridotta in quel modo.
Le candide ali della ragazza erano aperte, abbandonate scompostamente sulla superficie spinosa dei rovi, tutte imbrattate di rosso, le penne lucenti sparse sul terreno e tra le foglie.
L’ala destra era andata.
Avevano dovuto completare l’opera e separarla dal resto del corpo.

Quel che rimaneva sulla schiena di Alessa era l’ala sinistra, ormai perfettamente guarita, e un breve tratto dell’ala destra, ricoperto da poche piume superstite, bianchissime e soffici.
La prima cosa che la ragazza aveva fatto una volta ripresa conoscenza era stato alzarsi dal giaciglio e uscire fuori dalla base barcollando, rifiutando ostinatamente le braccia tese a sorreggerla e ignorando i rimproveri del Professore e di Angelo. Aveva cercato Valeria. In risposta agli sguardi afflitti e mesti dei due aveva voltato loro le spalle e, ostentando impassibilità, si era avviata lentamente alla pozza sullo spiazzo. Si era specchiata.
Pochi secondi dopo, ignorando ancora le urla del Professore e del suo migliore amico, aveva cercato di trasformarsi e di far apparire le ali d’angelo.
Non ci era riuscita ed era crollata imprecando veementemente.
Nei giorni successivi aveva riprovato. Infine, si era lasciata persuadere a riprendere del tutto le forze prima di compiere qualsiasi sforzo. Quattro giorni dopo il suo risveglio, Alessa si era trasformata.

Le aveva sentite stranamente leggere, le ali. Aveva avvertito da subito una minore pressione sulla spalla destra, una minore tensione della cute.

L’ala sinistra ebbe un fremito. Alessa tese con prudenza i muscoli della spalla destra, muovendo lievemente il moncone ancora privo di piume.
Le fece impressione. Si sentì strana, spaventata.
Una lacrima scese calda lungo una guancia.

"La mia ala ", disse in un gemito.

Alessa si riscosse.
Non si era accorta che il sole era tramontato e neanche dell’abbassamento della temperatura.
"Così non va bene", si rimproverò. Non avrebbe dovuto perdere la cognizione dello spazio intorno a sè. Sarebbe dovuta rimanere presente a se stessa. Invece si era lasciata portare via dai ricordi, da pensieri distraenti, inutili.
Era affamata. Da quanto tempo stava meditando?
Si mise in piedi, lentamente, sentendo tutte le ossa della colonna vertebrale vibrare. Fu attenta a tenere tesa l’ala, senza darle riposo. Doveva allenarla, fortificarla. Altrimenti, come avrebbe potuto riprendere a volare? Doveva riuscrici. Doveva.
Tutti la guardavano con pietà, con quelle espressioni cariche di finta comprensione sul volto. Tutti la consideravano una folle. Come avrebbe potuto volare con un’ala soltanto? Era impossibile.
Doveva accettare la realtà: non avrebbe mai più volato; le speranze di ritrovare la sfortunata Valeria erano poche e deboli.
Alessa si tormentava.
Sarebbe anche morta nel tentativo, si diceva. Avrebbe ritrovato la sua Valeria, l’avrebbe riportata alla base, avrebbe fatto fuori i membri di quella banda sconosciuta, e sarebbe ritornata a solcare i cieli, pur con una sola ala.
Alessa non avrebbe perso la speranza.

Angelo vide l’amica alzarsi.
"Finalmente!". Pure lui si mise in piedi e continuò a guardarla dall’orlo del terrazzo naturale.
Vide Alessa chiudere con eleganza l’ala sinistra e lasciar riposare quello che rimaneva della destra – un soffice batuffolo bianco.
La ragazza allungò la schiena e le braccia, per poi girarsi su sè stessa e volgere lo sguardo in alto, incontrando con sicurezza gli occhi marroni dell’amico. Era certa che la stesse osservando da ore. Lo faceva sempre, da quando lei aveva iniziato ad allenare la mente e ad affinare i sensi.
Spesso, da lì sotto, sentiva lui e Prof chiacchierare a bassa voce e parlare di lei. Da pochi giorni riusciva a catturare qualche parola, aiutandosi con l’intuito per capire quale fosse l’argomento della loro conversazione.
La presenza di Angelo la confortava, anche se ora non si parlavano più tanto come una volta, perchè lei aveva bisogno di stare da sola. Tuttavia, sapere che il suo migliore amico si preoccupava per lei la riscaldava, le infondeva sicurezza.

Il ragazzo salutò con la mano Alessa, che lo guardava con una dolcezza che riuscì per un attimo ad allontanare la distanza che si era creata tra i due amici in quelle due settimane. Quando lo guardava con quegli occhi, Angelo sentiva che non c’era una persona al mondo che gli stesse più a cuore di lei.
E così era.
Alessa era tutto quello che aveva, era tutto quello che lo teneva legato ai ricordi della sua vera vita, della vita che si era interrotta all’improvviso, quando si era ritrovato in quello spazio adimensionale, solo e confuso. Alessa era tutto.
Sorrise con tenerezza alla ragazza, che ora scompariva dalla vista del terrazzo. Si stava arrampicando su per la roccia.
Quando emerse da un buco sul fianco della montagna, sorrise di rimando all’amico, avvicinandosi con passo lento e malfermo.
<< Io avrei una certa fame >>, disse poggiando un palmo aperto sul ventre. Rise imbarazzata. Era ancora trasformata e teneva a riposo l’ala.
<< Vieni dentro, ti aspettavamo per mangiare >>, disse Angelo sorridendo appena.
Cinse delicatamente il fianco di Alessa e spinse l’amica con fare affettuoso dentro l
a base.

Pensando a ..

La pioggia, la mia adorata pioggia


Alexis si lasciò cadere sul letto.
Non si abbandonò del tutto, sapeva che esattamente all’altezza della nuca incombeva una mensola stretta e lunga, di legno color blu cobalto.
Sospirò seccata e stanca.
Le tremavano le mani e le braccia. Era nervosa, aveva appena litigato con la madre.
Era di cattivissimo umore, così come accadeva tutte le volte. Litigare la sfiancava, le faceva passare la voglia di tutto.
Durante il litigio aveva trattenuto a stento lacrime di rabbia.
Alexis odiava quella sua strana reazione. Odiava dover trattenersi dal dire tutte le cattiverie pur di non versare lacrima.
Si arrabbiava così facilmente ormai! Per ogni sciocchezza.
Le bastava veder entrare in casa un membro della famiglia per infastidirsi.
Aveva voglia di stare da sola, sempre da sola.
Ma non poteva. Quella era la casa di famiglia. Non la sua casa.
Come sarebbe voluta andare via, sparire da quel luogo per andare ovunque, lontano da lì!
Non si trovava al suo agio neppure nella sua camera, che sempre le era stata di conforto in momenti come quelli.
Ora le appariva stretta e claustrofobica. Asfissiante.
Niente le andava più bene in realtà.
Tutto le appariva superfluo, tutto le appariva insignificante. Tutto non andava come sperava.
Ogni ostacolo alla sua volontà le faceva saltare i nervi. Ogni singolo imprevisto.
Come la pioggia, ad esempio.
In quel momento la odiava, perchè le impediva di uscire fuori dalla sua prigione. In quel momento le era insopportabile. In tutt’altre circostanze,
l’avrebbe adorata, l’avrebbe amata. L’avrebbe guardata venir giù pesantemente, in quell’inverno insolitamente piovoso.
Si sarebbe affacciata alla finestra e avrebbe guardato i lampi con nostalgia. Avrebbe pensato "Chissà se anche lui sta guardando fuori", e avrebbe sorriso. Avrebbe ripensato con tenerezza a quella volta …
… quella volta in cui era scesa al Corso col motore e poi si era messo a piovere.
Si erano avviati celermente verso il "Brothers" per ripararsi e avevano trovato lì tutti i ragazzi del Carmine.
Avevano chiacchierato. Alexis aveva salutato Giulia e tutti gli altri con un cenno della mano, come faceva spesso. Lui aveva scambiato qualche saluto con i presenti e aveva accolto con autoironia i commenti sui suoi capelli, che lo riparavano efficacemente dalla pioggia leggera. Aveva riso divertito e aveva guardato Alexis con i suoi occhi nocciola […].

Dopo un po’ avevano salutato ancora e si erano mossi per raggiungere la sua macchina, ferma al solito posto, ai parcheggi in fondo al Corso.

Una volta saliti, si erano messi a pensare ad un posto in cui andare. Un posto in alto, aperto, che desse la possibilità di guardare i fulmini. Poco illuminato. Isolato, poco frequentato.
Alexis non ci aveva messo molto a dire "Al cimitero!". Perchè non ci aveva pensato subito? Era perfetto.
[…].
Quella sera il temporale era splendido.
L’aria era ferma. Le gocce di pioggia erano pesanti e grosse, come enormi lacrime del cielo nero. I lampi erano subito seguiti da luminose scariche di elettricità – bellissimi fulmini che danzavano poco lontano dal parcheggio del cimitero, ben visibili dal finestrino destro dell’automobile, sullo sfondo notturno di un avvallamento costellato di case, palazzi e strade, dai profili confusi nel buio.
Tuoni in lontananza. La musica lieve delle gocce sull’asfalto.
L’unica luce artificiale proveniva da un punto non visibile dietro il cancello principale del cimitero e, attenuata, da un grosso faro posto sulla muraglia sinistra del camposanto.

I genitori di Alexis non avevano chiamato. Strano. L’atmosfera era tutta stranamente perfetta. Armoniosa.

Chiunque, forse, l’avrebbe trovata piuttosto lugubre, addirittura inquietante.
Non loro, però.
Loro erano diversi.
Ed erano simili in molte diversità.
Erano in sintonia.
[…].
Alexis si tolse le scarpe e incorciò le gambe sul letto.
Tempo prima il ricordo l’avrebbe messa di buon umore.
Le mancava quell’assurda armonia.
La pioggia che ora sussurrava fuori dalla finestra della sua stanza non faceva parte di una melodia. Era stonata, maledettamente stonata.
E la irritava tantissimo.
Tremava ancora.
"Forse dovrei smettere di prendere caffè", pensò distrattamente. Ma non credeva davvero in quello che pensava.
Era in vacanza. Vacanza.
Era nella sua camera, dove tutto era possibile, dove tutto era lecito, dove tutto era suo e le apparteneva.
Poteva fare qualunque cosa. Poteva finalmente disegnare, dopo tanto tempo di pausa.
No, non le andava.
La Musa creativa era riluttante.
Abbandonò immediatamente il pensiero.
Poteva scrivere, aveva tante parole per la testa.
No, il computer era occupato.
Sospirò seccata.
Di mettere in ordine la camera non se ne parlava.
Aprì il diario per controllare i compiti per le vacanze.
«C’è un inferno», commentò a bassa voce, stancamente. "Si inizia domani", pensò poco convinta.
Il giorno dopo era Capodanno.

Erano le ventuno.

Ripensò al giorno prima. "Che giornata inutile". Era stata al diciottesimo del cugino Angelo, a Siracusa. Era stata una festa a sorpresa, gli invitati, amici intimi e i parenti.
Parenti. A un diciottesimo. Parenti mischiati con giovani neodiciottenni. Parenti, cioè zii, pochi cugini (tra cui Alexis e Sarah) e nonni.
La nonna.
La nonna era stata presa di mira dall’animatore, un tizio calvo dalle sopracciglia folte e curate, tutta la sera.
Angelo non era sembrato entusiasta. Anzi, era rimasto imbronciato per tutta la serata.
Poveretto.

Che giornata inutile anche quella.
Era stata una catena di imprevisti. "Che palle!".
Non aveva concluso niente.
Durante la giornata aveva sentito tre amici per telefono: Vale, Angy e poi Antrea. Erano state le uniche cose buone di quel 30 dicembre.
Avrebbe dovuto studiare.
Invece si era fatta distrarre da false speranze di evasione. Aveva cercato di mettere le cose a posto con una persona, ma aveva fatto un buco.
Aveva sperato di uscire, si era truccata. Poi si era messo a piovere. "Vaffanculo.
Pioggia del cavolo, inutile, fastidiosa e deprimente!".
Non c’erano neanche i tuoni. Nè i fulmini.
Era una pioggia stonata e basta.

Alexis appoggiò la schiena sull’impalcatura di Faggio. Raccolse le gambe e avvicinò le ginocchia al mento.
Ripensò alla passeggiata di quel pomeriggio.
Era uscita di casa certa che non avrebbe concluso nulla e i fatti non avevano tradito i suoi presentimenti.
Chissà perchè il suo intuito funzionava al contrario …
Aveva camminato una buona mezzora.
Non c’era freddo. Si stava bene con cappotto e berretto di lana.
Aveva camminato lungo tutta la Via Sacro Cuore. Aveva fatto una piccola deviazione verso l’ingresso della Piscina comunale per poi svoltare a destra appena superato il cancello rosso. Si era trovata di fronte al vecchio locale di "American Pizza".
"Hanno ricostruito tutto!", si era stupita. "Di nuovo".
Alexis si era avvicinata ai vetri dell’ingresso della pizzeria e aveva sbirciato all’interno, benchè il luogo fosse sufficientemente illuminato dall’esterno.
Poche cose erano rimaste uguali: il pavimento polveroso e le scritte sui muri bianchi di gesso.
Alexis aveva letto "Ti amo Manu", scritto con caratteri cubitali in vernice da bomboletta nera. Poi si era voltata, delusa. Quel posto le piaceva quando era abbandonato … […].

Alexis poggiò il mento sulle ginocchia.
Si erano fatte le ventuno e trenta.
Dunque anche quel posto avevano cambiato. Avevano ristrutturato a nuovo la vecchia pizzeria. Quanti altri luoghi erano mutati a sua insaputa durante il corso di quell’anno, di quel 2008 così pieno di novità?
Alla ragazza venne voglia di uscire per scoprirlo. Le venne voglia di avvenure insolite.
Ma … pioveva. Dannazione.
Niente. Un’altra falsa speranza stroncata sul nascere.
Che vacanze inutili.

Era arrabbiata, infastidita dalle cose. Dai cambiamenti. Alexis ne aveva abbastanza. La dava fastidio che tutto andasse avanti senza di lei, che le cose cambiassero senza darle il tempo di stare al passo.
Le sembrava che il tempo della sua anima andasse a rilento.
Le sembrava di non essere in linea con tutto il resto, di non essere sintonizzata con la vita.
Le sembrava di vivere solo di ricordi, di accettare soltanto le realtà passate, di apprezzare solo le cose belle che riviveva nella memoria e di disprezzare ogni più piccolo buon segno del presente. Quando tornava in sè e decideva di essere lucida, tutto quello che riusciva a sperare andava subito storto. Anche le cose più banali.
Meglio i ricordi allora.
Alexis era diventata malinconica. Aveva chiuso la sua mente per non far entrare nessun’altra novità. Si era chiusa nello scrigno della solitudine, assaporando ogni ozioso momento in cui poteva restare da sola, immersa nella musica preferita, che stimolava e richiamava echi lontani di sensazioni che si ostinava ad evocare, che non avrebbe assolutamente dimenticato.
Tanti brividi la percorrevano.
Tante immagini l’assalivano.
Tante lacrime le sfuggivano.
Ma non si stancava mai di ricordare. Ed ogni volta si stupiva quando veniva a galla un episodio che le sembrava di aver accantonato.
Spezzoni di dialoghi, le figuracce da impacciata, le battute divertenti (che la facevano ancora ridere suo malgrado), brividi.
Lampi di immagini, scene sbiadite che sembravano di altri tempi, ogni singola sfumatura di colore, la gamma completa di tutte le sue espressioni, il ricordo preciso di ogni suo sguardo, altri brividi.
Distingueva esattamente ogni suo stato d’animo.
Quando la prendeva in giro, quando le faceva perdere l’equilibrio. Quando parlava di musica, la sua più grande passione, o del paranormale.
Quando la scrutava con gli occhi che brillavano, pieni di sott’intesi. Quando era imbarazzato.
Quando era pensieroso. Quando era perso in chissà quali pensieri che lo preoccupavano sul serio. Come quel venerdì.
Alexis cambiò posizione.
Era scomoda, ma in quella casa ogni stanza la metteva a disagio. Non se ne preoccupò e continuò a vagare tra pensieri sconnessi.

Aveva commesso lo stesso errore. Due volte nello stesso anno. Chissà se ci sarebbe cascata una terza volta.
Chissà se se lo sarebbe permessa di nuovo. Alexis non lo sapeva, ma percepiva che quella storia si sarebbe ripetuta all’infinito.
O forse era solo paranoica.
Che cosa si aspettava? Di essere matura in così poco tempo? Dopo così pochi rischi?
Stupida.

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31 dicembre.
Qualcosa si è allineata forse. Forse possono ritornare come prima alcune cose.
Ciò che è in sospeso ritorna sempre.
Compie il suo giro e torna al punto di partenza, percorrendo la solita strada piena di fossi.
Impariamo a memoria dove sono le buche, ma difficilmente riusciamo ad evitarle.
Ci facciamo ostacolare consapevolmente.
A volte ci facciamo male consapevolmente. Ma perchè?
Per dare un nome alla nostra sofferenza forse?
Per sapere a chi dare la colpa?
Per scappare da altro dolore.
Certi salti si fanno nel vuoto più oscuro, con curiosità e voglia di divertirsi. Non si fa caso alla profondità dell’abisso. Si salta e basta.
Non si pensa ai danni che l’impatto provocherà, non si pensa a quanto farà male, non si pensa che se ne può uscire profondamente segnati.
Ci si butta, senza spinte.
Si cade, si rovina. La spinta è stata nostra, non di qualcun altro.
Per fuggire da qualcosa che ci insegue senza tregua.
Seminato questo qualcosa con una voragine di distanza, siamo svuotati.
Ma non dovremmo disperare, no. Supereremo anche le conseguenze. Almeno questo è quello che ci dicono.
Presto o tardi, supereremo l’ennesimo vuoto.

Ma non voglio più sperare.
Voglio solo provare ad andare al passo con il presente, per vedere cosa succede.
E ricordare, sempre. Per non dimenticare le buche, e gli errori, per non ripetere sempre lo stesso percorso circolare.
Per andare veramente via da questo
e cambiare ancora.
Due carillon intonano all’unisono melodie simili. Una assomiglia a questa pioggia: ha molte note stonate.
Una scorre più lenta adesso. Forse sta finendo la carica, ma sembra più armoniosa.
Gli altri carillon sono fermi ora. Li ho bloccati, oppure semplicemente non li ascolto. Non so che suono abbiano. Ma posso immaginare …
La musica della mia vita è caotica. Non si può ascoltare se non si va per gradi.
Niente spartiti.

Ricordi – bugie –nota stonata– sensazioni – parole – immagini – suoni – lacrime – il passato lega tutto e lo colora di antico.

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01 gennaio.
E’ nuvoloso. Sono da sola a casa ma non riesco a tranquillizzarmi. Mi tormento. Devo studiare, basta.
Dimentica, dimentica, dimentica.
Non posso.
Le cose belle si dimenticano presto, vero?
Un giorno però ritornerò a significare qualcosa? Ti ricorderai, vero? O forse no.
मैं तुम्हें बहुत याद आती है. E ti voglio bene. E non sono stata davvero στην καρδιά σας.
Non sopporto niente, non sopporto niente.
Non ci sei.
Non ci sei.
Voglio solo la pioggia, la mia adorata pioggia.

Non ci sei neanche tu, mia pioggia.

Eh, ‘sto 2008 sta finendo.
Ma si può cambiare così in un solo anno???
Non saprei! Deve esserci qualcosa di strano in me …
E’ come se quest’anno sia stato … magico. Hmm, vediamo se riesco a spiegarmi.
(Perchè ancora neanche io lo so cosa sto scrivendo).
Quest’anno sono come emersa da un lago nero. Per tutta una vita vi sono stata immersa e
a gennaio di quest’anno ho cominciato a venirne fuori.
Ma non sarebbe bastato tirare fuori la scatola dal lago. Poi si sarebbe dovuta aprire
e far uscire quella che sono.
E’ stato un lungo, lunghissimo processo, che si è quasi del tutto concluso ultimamente.


Tante persone che stavano intorno hanno contribuito ad aprire la mia scatola.

E le ringrazio tutte, dalla prima all’ultima.
E chiedo loro di perdonarmi, perchè le ho deluse riguardo al contenuto della scatola.
Infatti è bellissima dall’esterno, tutta colorata, decorata da mille forme, attraente
e sembrava che non vi avrebbe mai stancato guardarla.
Aprendola … beh, spesso l’apparenza inganna.
Sì, sulla scatola era dipinta una ragazza carina, divertente, persino ironica, una brava ragazza, brava in tutto e brava con tutti.
Purtroppo sulla scatola c’era scritto, a caratteri dorati e glitterati, "UTOPIA".
Eh sì, sono questa che vedete: una ragazza complicata, lunatica, superficiale, incoerente.
Vado bene a tutti finchè rimango chiusa nella scatola. Finchè tengo dentro tutti i colori scuri, tristi e repellenti.
Finchè tengo dentro tutto quello che ho da dire. Finchè nascondo sul fondo tutte le forme storte.
Finchè indosso la maschera che riflette la superficie della scatola, che avete tanto faticato a trovare in fondo al lago nero.
Quando soltanto esce un raggio di negatività, tutti si allontanano dalla bella scatola.
Quando soltanto esce una frase, un pensiero a lungo trattenuto, tutti si indignano.
Quando soltanto esce qualcosa che stona con la maschera, tutti stentano a riconoscermi e me lo fanno notare, contrapponendo alla mia natura una maschera che indosso solo per sana ipocrisia.
Il contenuto della mia scatola è così deludente?
Il contenuto della mia scatola è così insopportabilmente stupido o sbagliato?
Il contenuto della mia scatola è così impressionante da costringere tutti a fuggirne?
D’altronde è sempre stato così,
che tutte le cose belle e colorate, anche se fossero un miliardo, vengono eclissate da una piccola cosa brutta
e allora tutto quanto si colora di nero.
E la scatola diventa nera come il lago e occorre nasconderla alla vista, perchè non si può tollerare.
Le cose brutte e nere non piacciono a nessuno.

Neanche ai genitori piacciono.
I genitori vorrebbero tenere in casa solo scatoline luminose e belle, dai contenuti altrettanto invitanti e piacevoli.
I genitori vorrebbero riempire le nostre scatole di gioie, sani principi e felicità.
Chi non lo vorrebbe?
Già.
Anche io vorrei tanto essere capace di tenere dentro soltanto le belle cose che mi hanno passato.
Anche io vorrei tanto essere piacevole e invitante grazie ai miei contenuti e non grazie alla mia immagine.
Anche io vorrei essere piena di felicità e di buoni valori.
Ma non potevo scegliere cosa tenere dentro e cosa no.
Ho tenuto tutto quello che la gente mi ha depositato dentro.
I miei genitori hanno lasciato tutto di loro, senza filtrare le cose nere, senza riuscire a toglierle neanche dopo.
Le persone di cui mi sono circondata (e sono poche) hanno lasciato tante cose.
Mille colori e forme.
Mille cose belle e piacevoli.
E diecimila cose grige e forme a metà, incomplete.
Non sono riuscita a smistarle.
Sono tutte impresse sulla scatola per sempre. Tutte quante. Senza sfumature dai colori belli a quelli brutti.
Sì, beh, è un bel macello.
Non sono stata incapace di dipingere bene la superficie con i colori a disposizione.
Ho combinato un disastro.
Soltanto una cosa è buona:
ho lasciato trasparire, nel corso di quest’anno, tutti i colori brillanti e solari e tutte le forme rotonde e simpatiche
sul coperchio della mia scatola.
Devo dire che ho fatto un bel lavoro, perchè la scatola piace a tutti. Mi fa piacere questo.
Ma chi riesce a togliere il coperchio … si mette le mani ai capelli.
Chi riesce a farmi aprire, se ne va presto da me.
Infatti, incontra un primo strato di cose nella norma, nè belle nè brutte, molto ordinarie. E’ una delusione,
ma si può convivere con i colori pastello intrecciati con grigi candidi, con forme smussate e comuni.
Chi riesce a scavare più a fondo nella scatola, ci mette poco a intristirsi.
Le cose brutte e nere non piacciono a nessuno, e il fondo della mia scatola è tutto nero, con sfaccettature grigie e di altri colori scuri, repellenti. Sul fondo della mia scatola ci sono soltanto forme spigolose e appuntite, taglienti come la cattiveria, contorte come la rabbia e orride come le paure. Quest’ultime, poi, sono le più grosse e abbondanti.
Chiunque riesca a guardare il fondo della scatola, ne fugge via. Ognuno per i suoi motivi.
C’è chi ne è spaventato.
C’è chi rinuncia a scavare per cercare scatole con contenuti più semplici.
C’è chi si stufa delle ombre e torna in superficie in cerca di luce.
C’è chi neanche ha voluto esaminarlo e ha richiuso la scatola, senza rimettere a posto le cose meno ributtanti che stavano sopra per coprirlo.
C’è chi, con pazienza e coraggio, lo ha toccato. Non solo: ha scrostato un po’ di nero e ha trovato un bel colore.
Qualcuno vi ha trovato un bel rosso, acceso, violento. Ma non ha scavato oltre. E’ tornato in superficie, rinunciando.
Le ombre scoraggiano persino il più ardito guerriero e non è facile credere che ci sia qualcosa di buono sotto il nero più pastoso. O, anche credendolo, torna presto a cercare una fiammella, uno spiraglio di luce in quelle segrete che sono il mio cuore.
Qualcuno ha continuato lo scavo. Vi ha trovato un arcobaleno e ha cercato in tutti i modi ti tirarlo fuori, con tanta pazienza. Nonostante molte volte io stessa abbia cercato di dissuaderla dallo scavare, chiudendola con forza fuori dal mio scrigno, lei ha sempre insistito per entrare e riprovare.
Poche volte il mio fondo è stato toccato.
Una volta ho provato a spingervi qualcuno dentro, chiedendo aiuto, disperata.
Ma chiedevo uno sforzo intollerabile. Allora l’ho riportato al di fuori, mettendo davanti il coperchio bello e felice.
Da allora non ho più costretto nessuno ad aprire la mia scatola utopica.
Tranne i miei genitori. Loro sono costretti a fare i conti con le cose spiacevoli e ombrose tutti i giorni.
Oltre tutto, continuano a riempirmi di sfumature tristi. E io le accetto tutte, ancora, senza riuscire a salvarmi.
Hanno detto che non sembro più la scatola che hanno cercato di far crescere con attenzione.
Già. Mi hanno un po’ appesantita, è vero. Ma ci ho messo del mio per aiutarli. E’ un circolo vizioso.
I professori del liceo pensano che le vacanze mi aiutino a rimettere dentro la scatola la buona volontà di studiare e di avere la mia bella media (che prima era la cosa dipinta più in vista sul coperchio).
Loro non sanno che ho sepolto la mia volontà sul fondo già da tempo. E non sanno che sforzo ci vorrà a ritirarla fuori!
Illusi.
Neanche io riesco a scavarmi dentro, mi fa un po’ paura e non ne ho voglia. Preferisco immergermi nei bei colori della mia maschera invece che nel fondo triste che tanto assomiglia al lago dal quale mi hanno ripescata.
E’ sbagliato cercare di aprirmi. E’ sbagliato scavare costringendomi a guardarmi bene dentro, mi vengono le vertigini.
Mi sento male, perchè tra uno strato di nero all’altro ci sono delle voragini piene di VUOTO.
E la forma che rappresenta la paura del vuoto è grande quanto ognuno dei miei vuoti.
Non costringetemi a crearne di nuovi.
Non cercate di riempirlo con pennellate di felicità e bellezza, perchè stona.
E soprattutto si rischia di romperla la scatola.
(Ironico! "Non rompetemi la scatola!" Hihihi… sono proprio fuori di testa …).


Questa è la mia fine.

Alexis’ ending. Finisce il 2008.
Dopo il lavoro di mille cose belle e colorate, il nero ha finito per portarmi
a tenere la scatola chiusa.

Cercherò di distribuire meglio grigio e nero anche in superficie, per rendere meno traumatica

l’apertura del mio cuore.
Vi avrò rotto le scatole parlandomi dei miei sentimenti.
Scherzi a parte.
Quei pochi che leggeranno non arriveranno neanche in fondo (come con la mia scatola) alla pagina,
perchè si stancheranno molto presto. Troppo scuro, vero? Troppo deprimente.
Sono spiacente, questo è il mio cuore. Nero. Poi rosso. Poi arcobaleno, ma nessuno (a parte lei) lo vedrà mai.
Non vi crucciate, tutti si stancano. Anch’io sono stanca del mio cuore.
Credevo di poterlo colorare come potrebbe piacere a tutti, così come ho fatto con il coperchio.
Invece l’ho solo incrostato di altro grigio. E continuo.
Non posso farlo da sola.
Perchè devo farmi male, scavare nel dolore, nei pensieri cattivi, guardare in faccia le paure, superare i ricordi tristi, sorvolare tutti i miei vuoti se poi il mio cuore deluderà tutti quanti?
Non ho voglia più di mettermi in gioco.
Sì, ho deluso anche te alla fine. Me ne sono accorta e adesso sto ancora più male. Però, vedi? Ho fatto un errore. E tutte le cose belle che ho cercato di darti in tutto questo tempo? Nere. Eclissate.
Sinceramente, non ho più voglia di colorare.
I colori esistono solo sui fogli del mio raccoglitore e nelle frasi di questo intervento.
Ma la realtà è bianca e nera, con poche transizioni grigie.
E allora non coloriamo ciò che deve essere non colorato.
Questo è proprio il fondo.
Il mio fondo è così, reale. Ma, per buon senso, è mascherato da strati sempre più fantasiosi e utopici.
La verità è che io mi sono stancata di toccare il fondo.
Il mio fondo triste e repellente.
Pieno di paure e lacrime. E di mancanze.
Le mancanze non si possono riempire, l’ho capito ormai.
La scatola rimarrà chiusa, meglio per me e per tutti.
Mi dispiace per le cose brutte che avete visto.
Prometto che ne vedrete pochissime.
Chi è arrivato fino in fondo alla pagina, mi manderà a quel paese per le sciocchezze che ho reso pubbliche.
L’unica persona che ne sorriderebbe, non leggerà niente di tutto questo, perchè non legge spesso i blog.
E io ho perso un’intera mattinata, letteralmente gettata via.
Ma avevo bisogno di coraggio.
Queste parole sono inutili, ma sono concrete.
E mi aiuteranno.

Closed in my box.

Grazie a tutti per le cose piacevoli, per i bei ricordi.


 

Cosa è successo qui?


Era la mia camera. Il mio mondo.
Cos’era successo? Era crollato tutto!
Il palazzo s’innalzava soltanto fino al terzo piano. Tutto il resto era stato spazzato via da una qualche forza miesteriosa e terribile. Non poteva essere stato un terremoto. No, il palazzo non avrebbe ceduto.
Sembrava che fosse esplosa una bomba. Ma, in quel caso, il palazzo non sarebbe dovuto crollare dalle fondamenta?
Sul parcheggio di fronte all’edificio avevo dovuto scavalcare un’alta montagna di ruderi per poter ritrovare l’ingresso del palazzo. All’interno, ero salita fino al secondo piano strizzando gli occhi per la polvere spessa e turbinante, meravigliandomi che tutte le porte degli appartamenti fossero saltate in aria.
Cosa aveva provocato quella distruzione?
Al posto delle massicce porte in legno che ricordavo, si aprivano tetri varchi che lasciavano intravedere i profili di vecchi mobili attraverso la densa oscurità.
Anche la porta del mio appartamento non c’era più. Mi fermai a qualche passo di distanza dall’ingresso, timorosa.
All’interno era buio pesto. La poca luce che filtrava dall’esterno nella scala, attraverso una finestra incrostata di sporcizia, illuminava la cornice legnosa dell’entrata e quello che rimaneva dei perni metallici.
L’aria olezzante di muffa e chiuso si faceva sempre più densa man mano che mi avvicinavo, cauta, all’ingresso.
La vista cominciava ad abituarsi alla penombra, permettendomi di vedere il muretto in gesso sovrastato da una lastra di marmo scuro – verde, pensai. Lo ricordavo.
Il muretto, parallelo alla parete di fondo del salotto (che non riuscivo a scorgere) di fronte a me, terminava con una colonna bianca che, dal marmo, s’innalzava fino al soffitto.
Entrai.
La polvere mi fece starnutire e dovetti strofinare gli occhi per cercare di liberarli dai sottili granelli di cemento.
Quando riuscii ad aprirli, decisi di tenerli socchiusi per non aver fastidio.
[…].
Lasciai per ultima la mia camera da letto.
 

(Continua, coming soon: adesso non ho tempo).

<>

I’ll never let you go, never let you alone …

My heart belongs to your sincere soul.

Lezione di comunicazione

Peccato,
non ho molto tempo per scivere.
Avrei molto di cui parlare. Davvero molto.


Quest’anno le lezioni del prof. Pisana sono stimolanti.

Bella la lezione di oggi, specialmente la parte riguardante la

comunicazione tra figli e genitori.


Non occorre che i genitori siano psicologi per capire e saper interloquire con i propri figli.
In teoria, da parte loro (i genitori) sarebbe sufficiente:

  • Non esasperarci, lasciarci libera scelta nelle decisioni personali.
  • Non viziarci e imporsi con autorevolezza.
  • Non essere eccessivamente protettivi e lascivi.
In effetti è giusto tutto questo.
Sono d’accordo.

Altro punto interessante della lezione,
è stata la definizione psico-fisica di noi persone
per quanto concerne alcuni nostri comportamenti e/o reazioni
apparentemente inspiegabili o, comunque, "strani":
siamo dei prosciutti.

XD

Spiego:
alcuni (anzi, direi la maggior parte, se non tutti!) nostri modi di fare
sono condizionati, influenzati dagli "imput" provenienti
da persone a noi vicine. Le persone a noi più vicine,
in gran parte dei casi, sono i nostri genitori.
E’ inevitabile
che i figli crescano in relazione al padre e alla madre (o al zio, al nonno, etc.),
sia che questi siano presenti,
sia che questi siano assenti.
Su questo, penso, siamo tutti d’accordo.
Siamo condizionati dalla loro educazione se sono presenti,
dalla loro mancanza se non lo sono.

E’ davvero difficile essere un genitore.

Quanto è facile sbagliare,
opprimere il proprio figlio o,
al contrario, lasciargli troppa libertà!

Quanto è difficle entrare in comunione
con il figlio,
saperlo ascoltare e sapergli parlare,
dargli buoni consigli
e
ridurre il più possibile
il contrasto (inesorabile)
con il suo carattere emergente!

Basta un niente,
una "fesseria",
e tutto è compromesso.

Tutto si disgrega in un istante.

… Una fesseria …
[Magari fossero fesserie!]

Vi spiego cosa c’entrano i salumi.
XD
Il professore ci ha illustrato uno schema
che rappresenta
il processo che può indurre un figlio
ad avere certi atteggiamenti nei confronti di un genitore,
o nei confronti di entrambi i genitori.

S.P.E.C. =

Stimolo
Pensiero
Emozione
Comportamento

Scherzosamente, il professore ha detto che "siamo tanti prosciutti" a causa
di questa simpatica sigla.

Secondo lo schema,
ogni comportamento è causato da uno stimolo esterno,
dai quali si sviluppano pensieri.
Una mente pensante, che è stata stimolata negativamente
(o che comunque ha interpretato negativamente lo stimolo),
elabora, elabora, elabora.
Trasforma, cambia, reinterpreta.
Il pensiero si tramuta in emozione prima o poi.
Un pensiero negativo
provoca, nella maggior parte dei casi,
emozioni spiacevoli.

Da qui,
comportamenti ribelli,
atteggiamenti maleducati,
parole offensive e volte a ferire il genitore,
cattivo umore senza un apparente motivo,
risentimento nei confonti di uno o di entrambi i genitori.

Tutto per una <<fesseria>>.

Lo S.P.E.C. funziona.

Basta uno stimolo involontario,
una parola in più detta a cuor leggero,
un gesto irrilevante
per distruggere un rapporto sano
tra ragazzo e adulto,
ma anche tra ragazzi e adulti fra loro.

Basta che ci metta lo zampino
il cervello,
o l’inconscio,
e tutto cambia.
E può anche cambiare per sempre.

Come si sente spesso dire,

le parole sono macigni. Non è un luogo comune.


Non scherziamoci con le "fesserie".
E non scherziamo con le parole.