Ricordo vagamente le strane cose che mi
accaddero quella volta nello spazio.
Ignoro
come, ma mi ritrovai, sotto una cappa di stelle splendenti, di fronte ad un
singolare mezzo di trasporto. Era una sorta di pesce meccanico, alto il doppio
di me e altrettanto largo. La testa semisferica costituiva la cabina di
comando, il cui interno era visibile da fuori attraverso i due oblò circolari,
posti in corrispondenza degli occhi della creatura marina. Al posto delle pinne
laterali c’erano due alettoni, come quelli di un aereo, ma molto più piccoli.
La parte inferiore del corpo metallico terminava in sei cavità rotonde. Chissà
a cosa servivano …
Nel
complesso, il bizzarro mezzo sembrava fatto per volare nello spazio. Mi
avvicinai per esaminarlo meglio. Notai una strettissima fessura che delimitava
l’apertura del portellone che immetteva nella cabina di comando. Il pesce
volante sembrava fatto per contenere soltanto una persona alla volta. Guardando
meglio, vidi che sotto l’oblò che mi stava più vicino era incisa una scritta.
Incuriosita, lessi i caratteri lucenti. La scritta era un avvertimento: “Non
premere il pulsante bianco se sei una persona indecisa”.
Pulsante
bianco?
Vagai
con lo sguardo in cerca di quel pulsante. Alzando il capo per controllare sul
tetto del veicolo, mi accorsi che una protuberanza rotonda troneggiava al
centro dell’oblò, proprio sotto il mio naso. Come avevo potuto non vederlo? Era
proprio un pulsante bianco. Era grande quanto una mano aperta e al centro
riportava una scritta in rilievo che invitava a premerlo.
Pensai
all’avvertimento. “Io sono proprio l’ultima persona che dovrebbe pigiarlo”, mi
dissi. Ma avevo già deciso che l’avrei premuto. Cosa sarebbe accaduto?
Assecondai
la mia curiosità e lo premetti.
In
trenta secondi, la navicella spaziale s’illuminò tutta. Fluttuò da terra
emettendo degli sbuffi di fumo candido dalle sei cavità inferiori. Ecco a che
cosa servivano: erano le estremità dei condotti di scarico dei gas di
propulsione!
Il
pesce metallico si sollevò di un decimetro, mentre il portellone si apriva a
pressione verso l’alto, facendo un rumore molto simile a quello che fanno le
porte degli autobus quando si aprono. Mi accingevo ad osservare la miriade di
luci colorate sullo schermo del computer di bordo, quando una voce artificiale,
atona, dichiarò: «Hai sessanta secondi per pensare intensamente al luogo che
desideri raggiungere».
Trasalii.
La navicella mi aveva rivolto la parola.
Sul
grande schermo piatto comparvero le cifre di un conto alla rovescia: 50, 49,
48, …
Dovevo
sbrigarmi! Dovevo pensare alla svelta. Dove, dove andare?
Intanto
mancavano trenta secondi …
E
poi, se non avessi scelto, che cosa sarebbe successo? Notai una dicitura nella
parte superiore dello schermo: “Nota bene: se non ti decidi a scegliere un
posto entro il tempo concesso, perderai la tua unica occasione e partirò senza
di te. Rimarrai a terra, con tutte le tue angosce e le tue paure”.
Tredici,
dodici, undici, …
“Svelta,
svelta, svelta!”. Mi affrettai a sedermi sul sedile di guida – un puff cubico, soffice
e colorato – e strizzai gli occhi per concentrarmi.
Il
pericolo di venire abbandonata nella solitudine, costretta a convivere con il
dolore e le inquietudini, senza sapere come fare per uscire da quello spazio
deserto e oscuro, mi spinse a cercare dentro me un posto segreto, lontano da
ogni essere umano, isolato, ma, nello stesso tempo, famigliare e confortante.
Volevo andare via, via da tutto e da tutti, dimenticare me stessa, attingere ad
un equilibrio mai raggiunto. Desideravo la calma, perché il mio animo era fin
troppo agitato. E desideravo la consapevolezza di tutti i miei limiti.
…
Partenza.
Non
ricordo come si svolse il viaggio. Forse mi addormentai all’istante.
Ricordo
soltanto una brezza leggera, estiva. Ricordo che l’aria salmastra invase i miei
polmoni, aria che fin dalla prima boccata mi fece sentire a casa. E ricordo
l’inconfondibile sensazione della consistenza della sabbia fresca e fine tra i
miei pugni.
Quando
riaprii gli occhi, cauta, un orizzonte sconfinato riempì la mia vista: una linea
evanescente, l’incontro tra cielo e mare.
Mi
resi conto che la luna stava tramontando. La volta stellata era velata da
qualche nuvola scura. Il tenue chiarore della notte si rifletteva sulla cresta
delle onde lunghe, che increspavano le acque nere creando giochi di luce e suonando
quella piacevole melodia che solo lo sciabordare dei flutti sulla battigia è in
grado di produrre.
Il
mare.
Rimasi
lì, immobile. Seduta sul frangiflutti, dove la schiuma candida delle onde non
raggiungeva ancora la punta dei piedi nudi. Rimasi lì, con le gambe raccolte
tra le braccia, le ginocchia al petto. Fissavo il nero liquido.
Il
mare ha il potere di incantarmi. E così m’incantai quella volta.
Ogni
flutto si faceva più lungo, e si spargeva piatto sconfinando sulla superficie
infinita dell’oceano. Mi accorgevo appena che a est un timido crepuscolo si
affacciava con estrema lentezza, scoprendo man mano i colori ombrosi del
paesaggio. Lì sotto, dove il sole fondeva eccezionalmente le acque e
l’atmosfera, chissà, forse era lì la chiave che cercavo, la chiave della
serenità. Forse la soluzione era unire tutto e mettere ogni cosa nel posto in
cui doveva stare, così come le nuvole stanno in cielo e il mare sta in terra.
Dunque, occorreva prima trovare i pezzi mancanti; poi riconoscerli e sistemarli
al posto giusto; infine, avrei dovuto ricollegare tutti i pezzi.
Era
questa la consapevolezza che cercavo. Una visione d’insieme della mia vita, un
quadro completo e armonioso che raffigurasse ciò che ero diventata. Dovevo
capire chi ero o chi stavo diventando, avevo un gran bisogno di vedere chiaro,
di risalire all’indietro per indagare le profonde ragioni che mi avevano
indotta a perdere tanti affetti, o a non crearne affatto.
Chiusi
gli occhi per tuffarmi nel passato, nell’infanzia. Cercai e cercai. Trovai cose
che credevo perdute, ne scoprii altre che credevo mai avute, ne compresi molte
che credevo complicate. Cercai a lungo.
Ma
non trovai il coraggio. Non lo trovai il coraggio di guardare in fondo alla
voragine. Non ebbi l’ardimento di osare un tuffo così profondo e rifuggii in
superficie, spaventata dalla profondità di quella ferita. Spalancai gli occhi,
sconcertata. La musica monotona delle onde mi riportò sulla spiaggia, dove
sedevo ancora abbracciando forte le ginocchia, premendo il viso su di esse per
paura di ritrovarmi di fronte a quel baratro terrificante. Del tutto diversa fu
l’immagine che rapì i miei occhi semichiusi: non un nero precipizio, ma la
tavola argentea, maledettamente piatta, del mare.
Come
diavolo potevo trovarmi in un ambiente talmente calmo, mentre dentro di me
imperversava una furiosa tempesta?
In
un secondo desiderai che i raggi insonnoliti di quel sole d’estate venissero
schermati da una coltre densa di nubi nere di pioggia. Desiderai che la
tempesta che scuoteva la mia anima uscisse fuori e scatenasse i suoi disordini
all’esterno, e che invece quella pacata alba di Giugno entrasse in me, dando un
senso a quel puzzle incompleto che era la mia esistenza, riempiendo con la
sabbia fresca e liscia di quella spiaggia solitaria il grande abisso tra ciò che non sono e ciò che voglio essere, sperando che quel sole nascesse in me e
legasse una volta per tutte il cielo e il mare della mia vita.
Desiderai
andar via da quella spiaggia, perché non c’era soluzione possibile. Non al
momento almeno. Mi ero resa conto di non essere pronta a guardare il fondo del
mio cuore. Desideravo tornare a casa, nella città in cui avevo vissuto per
undici anni, dove sapevo di poter trovare il mio angolino di pace momentanea.
Non ero pronta a capire.
No,
sto mentendo. Ho già capito da tempo com’è fatto il fondo di quel baratro. L’ho
anche toccato un paio di volte. Ma l’ho raggiunto sempre ad occhi chiusi,
codarda. Il coraggio che mi manca è il
coraggio di accettarlo. Non ho il coraggio di accettare tutto.
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Ricordo
vagamente le strane cose che mi accaddero quella volta nello spazio. Mi è
rimasto soltanto questo racconto frammentario e sfocato.
Ma
adesso so. E quando troverò la chiave, finalmente la mia tempesta si placherà.
Ti
aspetto, mia alba di Giugno …